Le babbucce di Abu-Kasem
Un tempo a Bagdad viveva un famoso mercante di nome Abu Kasem. Era la più perfetta caricatura di avaro, di meschino, di spilorcio che si possa immaginare. Era ricchissimo, ma non voleva che si sapesse. Abu Kasem era uno di questi. Ma ciò che lo distingueva dai tipi della sua specie e che aveva fatto di lui il più pittoresco di tutti gli spilorci di Bagdad, erano le sue babbucce. Erano tanto sudicie, informi, rattoppate mille volte, schifose che anche il mendicante più cencioso dell’Arabia si sarebbe vergognato di morire con simili calzature ai piedi.
Un giorno, al bazar di Bagdad, Abu Kasem fece un colpo maestro; comprò da un negoziante in fallimento, per un tozzo di pane, mille boccette di cristallo e un’otre di essenza di rose. Contava di rivendere al dettaglio i preziosi flaconi di essenza di rose a un prezzo dieci volte superiore ai loro costo.
A Bagdad, allora, qualunque onesto mercante, per festeggiare un buon affare come questo, avrebbe offerto un piccolo banchetto ai suoi parenti e amici.
Abu Kasem, invece, non pensò un istante a una simile follia, ma decise comunque di celebrare l'avvenimento, « Al diavolo l’avarizia, pensò, farò un bagno». Maestoso come un re degli straccioni, entrò dunque nel più bel bagno pubblico di Bagdad, dove non aveva mai messo piede.
Nell’atrio, dove si lasciano scarpe e vestiti, incontrò un amico. Abu Kasem si stava togliendo le babbucce e si vedeva chiaramente quanto fossero rattoppate. L’amico gli parlò con tutta serietà: un commerciante così fortunato avrebbe dovuto permettersi un paio di scarpe nuove. A lungo e in silenzio Abu Kasem contemplò quelle orrende calzature che amava profondamente e infine disse:
-«Ci sto pensando già da qualche tempo, ma non sono ancora così consumate da gettarle via».
I due finirono di spogliarsi ed entrarono nella sala da bagno.
Mentre Abu Kasem si abbandonava alle delizie del bagno caldo, fece il suo ingresso anche il giudice del tribunale di Bagdad. Intanto Abu Kasem profumato, rasato di fresco, ritornò nello spogliatoio per rivestirsi.
Ma dov’erano finite le sue babbucce? Erano sparite. Al loro posto ce n’era un altro paio, bellissimo. Avevano un buon odore di cuoio nuovo. Forse era un regalo, una piccola sorpresa da parte del suo conoscente che non sopportava più di vedere l’amico Abu Kasem, tanto più ricco, andare in giro con quelle ciabatte così consunte? Magari con questa gentile attenzione voleva entrare nelle grazie del facoltoso uomo d’affari?
In ogni caso Abu Kasem indossò le babbucce che gli evitavano il grande dolore di doverne comperare di nuove. Con queste considerazioni, e senza provare il minimo rimorso, se ne andò.
Quando il giudice uscì dal bagno scoppiò il finimondo: i suoi schiavi non riuscivano a trovare le babbucce del padrone. Ce n’era solo un paio, orrendo e rattoppato, che tutti riconobbero essere le calzature di Abu Kasem. Il giudice sbraitava, fece arrestare Abu Kasem nella sua abitazione e lo sbatté in prigione. E lo condannò a pagare un'ammenda esorbitante. Abu Kasem pagò, e ottenne in cambio le sue vecchie ciabatte.
Distrutto dal dolore tornò a casa, e in un impeto di malumore, buttò l’oggetto della sua disgrazia fuori dalla finestra. Le babbucce, curate tanto teneramente, volarono nel Tigri che scorreva limaccioso vicino alla casa. Qualche giorno dopo alcuni pescatori credettero di aver catturato nel fiume un pesce particolarmente grosso: ma erano soltanto le babbucce rattoppate del vecchio spilorcio. La chiodatura, un’altra sfumatura dell’avarizia di Abu Kasem, aveva strappato le loro reti. Pieni di rabbia scaraventarono quelle cose coperte di fango e grondanti d’acqua dentro la prima finestra aperta che trovarono. I due orridi cimeli volarono nell’aria e caddero con violenza sopra un tavolo pieno di preziose bottigliette di cristallo acquistate tempo prima a prezzo stracciato; ancora più preziose perché erano state riempite con l’olio di rose ed erano pronte per essere vendute. Le babbucce spazzarono via la magnifica mercanzia che finì per terra: un mucchio gocciolante di frantumi mescolati a fango.
«Maledette babbucce - urlò il poveretto, non mi farete più altri danni!» Così dicendo, prese una vanga e andò in giardino, scavò una fossa e le seppellì.
Ahimè! Il vicino di Abu Kasem lo vide scavare come un forsennato, in fondo al suo giardino e pensò: « Non mi meraviglierei che quel vecchio avaro avesse scoperto un tesoro».
Ora, tutto ciò che trovava un cercatore di tesori apparteneva di diritto al califfo di Bagdad.
L’uomo andò di corsa dal governatore e denunciò Abu Kasem che venne convocato in tribunale.
- Ho sepolto le mie babbucce, disse in tono abbacchiato.
Un enorme scoppio di risa scosse l'assemblea. Nessuno credeva a una simile scempiaggine. Era persino inutile verificare ciò che il mercante nascondeva nel giardino. Evidentemente si trattava proprio di un tesoro.
Abu Kasem venne condannato a un'ammenda tale da farlo cadere in ginocchio.
Era disperato. Imprecava furiosamente contro le maledette babbucce: come poteva disfarsene? Decise di portarle fuori dalla città. Si avviò e trovò uno stagno in cui le fece colare a picco. Mentre affondavano nel tranquillo specchio d’acqua, tirò un sospiro di sollievo: finalmente se n’era liberato!
Due volte ahimè! Quello stagno era il serbatoio d'acqua della città. Le babbucce, trascinate in un gorgo, finirono in un condotto, e lo ostruirono.
Arrivarono i custodi delle acque per riparare il danno, trovarono le famose babbucce (chi non le conosceva?) e denunciarono Abu Kasem presso il governatore per inquinamento dell’acqua potabile. Così, di nuovo, si trovò in guardina, condannato a una multa ancora più dura delle altre due.
Gli furono pure rese le care vecchie babbucce, perché il fisco non si arricchisce a spese degli altri.
Ne aveva abbastanza: fremendo di rabbia, decise di bruciarle. Ma erano ancora bagnate e perciò le mise sul balcone ad asciugare. Un cane, che stava sul balcone del vicino, vide i due strani oggetti e si incuriosì. Con un salto arrivò sul balcone di Abu Kasem, afferrò una babbuccia e la fece cadere in strada, proprio sulla testa di una donna incinta, che venne colta da un malore e abortì. II marito si precipitò dal giudice, accusando Abu Kasem che, per pagare l'ammenda, fu costretto a vendere la sua casa, il suo ultimo bene. Ma, stavolta, davanti al tribunale, l'uomo rise come uno scemo.
-«Le mie babbucce ve le do. Ve le regalo. Ecco. No, non ringraziatemi».
Adesso che non possedeva più nulla, aveva finalmente il cuore tranquillo. Non potevano prendergli più niente, non aveva più nulla da temere. Era libero.
- «Grazie, infami babbucce» disse.
E se ne andò, a piedi nudi, in pieno sole.
Lo scalpellino
C'era una volta uno scalpellino che, da anni ed anni, picchiava e picchiava una montagna per tirare fuori pietre. In quella stessa montagna, viveva anche un jinn che, ogni tanto, concedeva desideri alla gente. Ma lo scalpellino non lo sapeva!!!
Lo scalpellino viveva contento, fino a che un giorno andò a consegnare alcune pietre al palazzo di un re ricchissimo. Vedendo i letti d’oro, i domestici e gli ombrellini che proteggevano il principe dal sole, lo scalpellino sospirò:
-Ah...! Se io fossi principe, che felice sarei! -
La voce del genio gli rispose:
- Il tuo desiderio è stato ascoltato. Sarai principe e sarai felice! -
Ed improvvisamente... lo scalpellino si trasformò in un principe! Aveva un palazzo prezioso e passeggiava molto contento dappertutto con il suo ombrellino. Fino a che un giorno si rese conto che il sole asciugava l'erba e perfino oltrepassava il suo ombrellino. Rifletté a lungo e disse:
- Come? Il sole è più poderoso di me? Ah...! Se io fossi il sole, che felice sarei!-
La voce del genio gli rispose:
- Il tuo desiderio è stato ascoltato. Sarai il sole e sarai felice.-
E d’improvviso... lo scalpellino si trasformò nel sole! Molto contento di essere tanto poderoso, lanciava tanto caldo sulla terra seccandola completamente. Fino a che un giorno una nuvola si mise davanti al sole e lo coprì. Questo l'irritò molto e disse:
- Come? Una nuvola è più importante di me! Ah...! Se io fossi una nuvola, che felice sarei! -
La voce del genio gli rispose:
- Il tuo desiderio è stato ascoltato. Sarai una nuvola e sarai felice.-
Allora lo scalpellino si trasformò in nuvola. Molto contento, coprì il sole e sparse pioggia sempre più pioggia. I fiumi strariparono e l'acqua strappò gli alberi, ma la montagna non si mosse neanche un pochino. Vedendola, lo scalpellino gridò molto arrabbiato:
- Come? La montagna è più importante di me? Ah...! Se io fossi una montagna, che felice sarei!
La voce del genio gli rispose:
- Il tuo desiderio è stato ascoltato. Sarai una montagna e sarai felice.-
E lo scalpellino si trasformò in montagna. E lì rimase, molto orgoglioso, senza muoversi. Fino a che un giorno sentì un rumore molto fastidioso: "Toc, toc, toc". Era il rumore che faceva un altro scalpellino. E, dopo si sentì il rumore di una gran pietra che rotolava giù per la montagna. Lo scalpellino, molto inquieto, esclamò:
- Come? Un semplice ometto è più forte di me? Ah...! Se io fossi uno scalpellino, che felice sarei! -
Allora, la voce del genio disse per ultima volta:
- Il tuo desiderio è stato ascoltato. Sarai uno scalpellino e sarai davvero felice!
Un uomo doveva attraversare un fiume largo e impetuoso; non riuscì pero a trovare né un barcaiolo né un guado. Così si ricordo che un giorno un santo gli aveva regalato un amuleto, dicendogli: «Questo amuleto nasconde in sé una forza prodigiosa; chi lo tiene in mano sarà in grado di camminare sull'acqua senza bagnarsi i piedi». L’uomo decise di provare; prese in mano l'oggetto e si avviò sul fiume. Era vero, le acque lo portavano. Muoveva un passo dopo l'altro e non affondava. La paura iniziale ben presto svanì, per far posto a una grande fiducia.
Arrivato in mezzo al fiume, l'uomo contemplò l'amuleto che teneva in mano e disse: «E’ portentoso che questa roba così insignificante abbia un potere tanto grande! Chissà che cosa c'è dentro!» Continuando a camminare sull'acqua, cominciò a sciogliere i nodi dell'amuleto. Dentro trovò un pezzetto di carta ripiegato. Lo aprì: vi era scritto sopra il nome di Dio. «Tutto qui?» si chiese deluso. Ma non ebbe altro tempo per riflettere sulla domanda, tanto velocemente affondò nell'acqua gorgogliante.
(Heinrich Zimmer - Racconti dall’India)
Il santo Narada
Il santo Narada si consumava in ardente ascesi per cercare di penetrare nel mistero divino di Vishnu. Implorava il dio perché gli manifestasse il gioco magico della maya, che intesse l'eterno vortice del cosmo con le sue costellazioni e le miriadi di creature che vengono e vanno.
Vishnu ebbe compassione di lui e gli apparve fisicamente nella figura benevola e gioiosa di Krishna, il pastore e l'eroe, il cui sorriso divino e la parola erano ben conosciuti al santo Narada. «Signore, mostrami la tua maya» lo implorò Narada, e Krishna gli rispose: «Lo farò. Seguimi!»
Dall'eremo nella foresta, se ne andarono insieme e raggiunsero una landa deserta, senza ombra. Il sole ardeva nel cielo e a Krishna venne sete. Allora il Signore disse a Narada: «Narada, ho sete; mi vai a prendere dell'acqua? Non lontano da qui c'è un villaggio». «Subito, Signore» rispose l'asceta e partì, mentre Krishna rimase nel deserto ad aspettarlo.
Narada arrivò al villaggio e bussò alla porta della prima casa, per chiedere una brocca d'acqua. Comparve una ragazza bellissima, e al santo successe ciò che non aveva mai neppure immaginato; gli occhi scuri della ragazza lo incantarono, sembravano gli occhi di loto nero-blu del suo divino amico e Maestro. Attonito, Narada continuava a guardare, senza mai saziarsi di quella leggiadria. Dimenticò completamente che cosa volesse chiedere alla ragazza e che cosa lo avesse condotto nel villaggio. Stava lì, prigioniero. Rispettosamente e con semplicità la fanciulla gli diede il benvenuto; la sua voce era come un magico laccio d'oro che si posava carezzevole sul capo dell'eremita, il quale, come in sogno, seguì l'invito ed entrò in casa.
Venne ricevuto come si riceve un uomo santo; tutta la casa sembrava felice e fiera per la sua presenza. Narada rimase: ciò che lo avvolgeva con la magia del noto e dell'ignoto, in questa nuova vita che silenziosamente si chiudeva attorno a lui come una lucerne conchiglia, era la quieta e divina maestosità della casa e dei suoi abitanti, culminante nel fiore radioso della grazia e della purezza della giovane donna.
Narada non ricordava da dove veniva. Che cosa lo aveva portato qui? C'era qualcuno, fuori nel mondo, che lo aspettava? Lo aveva dimenticato, si era perso in se stesso: ed era rimasto. Si era innamorato della ragazza. Ne chiese la mano al padre e sembrò che tutti non attendessero altro che egli diventasse un membro della loro famiglia.
Si sposarono ed ebbero tre figli. Passarono gli anni, il padre morì e Narada ereditò bestiame e campi e proseguì il lavoro dello scomparso. Trascorsero altri dodici anni: poi, durante il monsone, un'inondazione distrusse tutto il villaggio. Le capanne di paglia sprofondarono nel fango, il bestiame venne portato via dalla corrente delle acque rigonfie e annegò nei gorghi. Tutti dovettero fuggire. Narada prese per mano la moglie e due figli, mentre il più piccolo era sulle sue spalle. Con passo malfermo, se ne andò nella notte flagellata dalla pioggia, nell'acqua impetuosa che correva rombando e che si alzava sempre di più. La sua violenza era superiore alle forze di un uomo. Narada non resistette alla corrente, inciampò: il bambino più piccolo gli scivolò dalle spalle e scomparve nei flutti. Narada urlò inorridito e lasciò le mani degli altri due figli per salvare il piccolo: inutilmente. Anche gli altri due vennero strappati dal suo fianco e scomparvero nelle tenebre mugghianti. Teneva ancora la mano della moglie rigidamente nella sua, ma un'onda li avvolse, li divise con violenza, lo portò via, lo fece andare alla deriva nella notte e infine lo gettò privo di sensi su una piccola altura.
Quando rinvenne si rese conto dell'infinità della propria pena guardandosi attorno, vedendo il disastro sul quale spuntava una pallida luce. Scoppiò a piangere. Improvvisamente dietro di sé sentì una voce nota, che lo fece sussultare: «Figlio, dov'è l'acqua che mi dovevi prendere? E’ da più di mezz'ora che ti sto aspettando».
Narada spalancò gli occhi e si guardò attorno: invece dell'inondazione (doveva averla sognata) vedeva il deserto che aveva attraversato insieme con il dio; un deserto tremolante per la calura del mezzogiorno. Voltò il capo verso la divinità che stava in piedi dietro di lui e abbassò la fronte con un brivido, mentre le labbra crudelmente belle di Krishna si aprirono in un sorriso, chiedendogli: «Ora conosci il mistero della mia maya!»
(Heinrich Zimmer - Racconti dall’India)
I due sognatori
Nella città persiana di Isfahan, viveva un tempo un contadino poverissimo. Come unico bene possedeva un’umile casetta bassa del colore della terra riarsa dal sole, davanti alla quale si stendeva un campo sassoso, alla cui estremità c’erano una fonte e un fico che costituivano tutta la sua ricchezza.
Quest’uomo, che lavorava molto per raccogliere poco, quando la meridiana stinta sulla facciata della sua casupola indicava il mezzogiorno, soleva fare la siesta all’ombra del suo fico. Un giorno, addormentatosi con la nuca contro il tronco del suo albero, fece un bel sogno. Gli pareva di camminare in una città popolosa, vasta, magnifica. Lungo il vicolo che percorreva indolentemente c’erano botteghe traboccanti di frutta e di spezie, di rami e di tessuti variopinti. In lontananza, contro il cielo azzurro, si innalzavano minareti, cupole, palazzi dorati. Il nostro uomo, contemplando in estasi quelle ricchezze, quelle bellezze e i volti affabili della folla circostante, giunse presto, nella luce e nella facilità di quel sogno benedetto, in riva a un fiume attraversato da un ponte di pietra. Avvicinatosi al ponte, si fermò di colpo, incantato: ai piedi del primo paracarro si trovava uno straordinario tesoro di monete d’oro e di pietre preziose in un grande forziere aperto. Udì allora una voce che gli disse:
- Ti trovi nella grande città egiziana del Cairo. Questi beni, amico, sono destinati a te.
Si erano appena accese tali parole nella sua mente che si svegliò sotto il suo fico, a Isfahan. Il contadino pensò subito che Allah lo amasse e desiderasse arricchirlo.
« In verità, penso, questo sogno non può essere che il frutto della sua indulgente bontà. » Racchiuse in un fagotto le sue poche cose, nascose la chiave della sua casupola fra due pietre del muro e partì subito alla volta della terra d’Egitto per cercare il tesoro promesso.
Il viaggio fu lungo e rischioso, ma per grazia naturale il contadino aveva il piede saldo e una salute di ferro. Incontrò briganti, animali selvaggi, trappole lungo strada, e dopo tre settimane giunse finalmente alla grande città del Cairo, che era esattamente come l’aveva veduta in sogno.
Camminò negli stessi vicoli fra la stessa folla indolente, passando accanto alle stesse botteghe traboccanti di tutti i beni del mondo. Si lasciò guidare dagli stessi minareti, che si stagliavano in lontananza contro il cielo limpido. Arrivò così in riva allo stesso fiume attraversato dallo stesso ponte di pietra. All’entrata del ponte si trovava lo stesso paracarro. Lo raggiunse di corsa con le mani già protese alla ricchezza... ma lì non c’era che un mendicante, che gli tese la mano per chiedere un tozzo di pane. Del tesoro non c’era la minima traccia.
Allora il nostro inseguitore di sogni, allo stremo delle forze e delle risorse, si disperò.
« A che serve vivere ormai, si disse. In questo mondo non può capitarmi più nulla di auspicabile. » Con il volto inondato di lacrime, scavalcò il parapetto, deciso a gettarsi nel fiume. Il mendicante lo trattenne per un piede, lo riportò sul selciato del ponte, lo prese per le spalle e gli disse:
– Perché vuoi morire, povero sciocco, con un tempo così bello?
L’altro, singhiozzando, gli raccontò tutto: il suo sogno, il suo lungo viaggio, la sua speranza di trovare un tesoro. Allora il
mendicante si mise a ridere fragorosamente, si picchiò la fronte con il palmo della mano e, indicandolo all’intorno come un gran buffone, disse:
– Ecco il più grande idiota della terra. Che follia avere intrapreso un viaggio così pericoloso prestando fede a un sogno!
Mi credevo povero di spirito, ma, in confronto a te, mi sento saggio come un santo derviscio. Io che ti parlo, tutte le notti, da anni, sogno di trovarmi in una città sconosciuta. Il suo nome è, credo, Isfahan. In quella città. c’e una casupola colore della terra riarsa dal sole, dalla facciata modestamente ornata da una meridiana stinta. Davanti a tale abitazione si stende un campo sassoso, in fondo al quale si trovano una fonte e un fico.
Tutte le notti, nel mio sogno, scavo una buca profonda ai piedi di quel fico e scopro un forziere colmo fino all’orlo di monete d’oro e di pietre preziose. Mi sono mai sognato di rincorrere quel miraggio? No. Sono un uomo ragionevole, io. Sono rimasto a mendicare tranquillamente il mio pasto su questo ponte di grande passaggio.I sogni sono menzogneri, dice il proverbio. Saresti dovuto rimanere dove ti ha messo Dio. Va’, medita, e in futuro
sii meno ingenuo, vivrai meglio.
Il contadino, dalla descrizione fatta, riconobbe la sua casa e il suo fico. Con il volto a un tratto illuminato, abbracciò il mendicante sbalordito da quell’accesso improvviso di entusiasmo e ritornò a Isfahan di corsa, saltellando come un uomo pervaso da una gioia inesauribile.
Arrivato a casa, senza nemmeno aprire la porta, afferrò una zappa, scavò una grande buca ai piedi del fico e in fondo alla buca scoprì un immenso tesoro.
Allora, prosternandosi, disse:
– Dio è grande e io sono suo figlio.
Così finisce la storia.
IL FILO DEL RAGNO
Un giorno Budda passeggiava da solo lentamente intorno al laghetto dei loti in paradiso. I fiori dei loti che si trovavano sulla superficie dell'acqua erano bianchi, simili alle perle, e i loro pistilli color oro spandevano in continuazione un profumo delizioso.
Era di mattino.
Ad un tratto Budda si fermò sulla riva del laghetto e diede un'occhiata al fondo tra le foglie di loto che si stendevano sull'acqua. Dal momento che l'inferno si trovava sotto questo laghetto, attraverso l'acqua limpida come un'ametista si vedevano il fiume Sanzu e il monte degli aghi, chiari come attraverso un binocolo.
Budda osservò un uomo, Kandada, che si muoveva insieme con gli altri dannati nel fondo dell'inferno. Quest'uomo era stato un bandito che aveva commesso vari reati, assassini, incendi dolosi ecc. Solo una volta egli aveva fatto un'opera caritatevole. Un giorno mentre egli passava in mezzo a un bosco fitto vide un piccolo ragno che camminava carponi lungo un sentiero. Egli immediatamente alzò il piede e stava per ucciderlo: Ma pensò: «No, no, anche se piccolo ha la sua vita. E’ troppo crudele ucciderlo senza ragione» e lo lasciò ad andare senza fargli male.
Guardando l’inferno Budda si ricordò che Kandada aveva salvato una volta un ragno. Perciò per il bene che egli aveva fatto, in cambio Budda volle aiutarlo e dargli la possibilità di uscire dall'inferno. Fortunatamente vicino a Budda su una foglia di loto color giada un ragno filava la sua bella ragnatela color argento.
Budda allora prese in mano un filo del ragno delicatamente e lo fece cadere tra i fiori bianchi simili alle perle diritto fino in fondo all'inferno.
Qui dentro il laghetto di sangue, nel fondo dell'inferno, Kandada galleggiava insieme con altri dannati. Dappertutto c'era buio e poiché non si poteva vedere altro di tanto in tanto che gli aghi del monte, non c'era nessun posto più sperduto di questo. Inoltre c'era un silenzio di tomba e non si sentiva altro che i sospiri dei dannati. Sfiniti dalle varie penitenze essi non avevano più la forza di piangere perciò anche il bandito Kandada si limitava ad agitarsi come una rana in punto di morte, soffocato dal sangue del laghetto.
Ma un giorno quando Kandada alzò la testa e guardò per caso il cielo sopra il laghetto, vide il filo di ragno luccicante, color argento, scendere verso di lui dall'alto silenziosamente come se non volesse essere notato da nessuno. Appena lo vide egli provò una grande gioia.
«Aggrappato al filo di ragno, salendo e salendo potrei senz'altro uscire dall'inferno. Poi se fossi abbastanza fortunato potrei arrivare in paradiso. E non dovrò più arrampicarmi sul monte degli aghi né galleggiare nel laghetto di sangue ». Così pensò Kandada e subito afferrò saldamente il filo con le due mani e inizio ad arrampicarsi energicamente una bracciata dopo l'altra. Poiché era stato un bandito, era abituato a questa impresa. Ma tra l’inferno e il paradiso ci sono alcune decine di migliaia di chilometri, perciò anche cercando di arrampicarsi velocemente non sarebbe potuto arrivare in alto tanto presto. Poco dopo egli finì di consumare tutta la sua energia e non potè più andare avanti nemmeno un tratto. Non gli rimase altro che fermarsi e, appeso al filo, guardo giù lontano.
Grazie alla sua fatica il laghetto di sangue dove fino a poco tempo prima egli si trovava non si vedeva più, scomparso nel buio del fondo. Anche il monte degli aghi, debolmente luccicante, si trovava lontano sotto i suoi piedi.
«Arrampicandomi con questo ritmo forse ci vorrà molto meno di quanto avevo pensato per uscire dall'inferno » pensò Kandada sempre aggrappandosi al filo di ragno con le due mani, e rise dicendo « Bene,bene» con un tono di voce che non si sentiva da quando egli era arrivato all’inferno. Ma ad un tratto -egli si accorse che anche altri innumerevoli dannati, lo seguivano arrampicandosi dal fondo, simili alla fila indiana delle formiche. Quando egli li vide, per un attimo tenne la bocca spalancata come uno stupido muovendo solo gli occhi dalla sorpresa e dallo spavento. « Questo filo così sottile che resiste appena al mio peso, non è possibile che regga tutta questa gente. Se per caso il filo dovesse strapparsi, io stesso, arrivato fino qui dopo questa immane fatica, dovrei precipitare diritto nell'inferno di prima. Non posso accettare una cosa simile ». Mentre egli così pensava i dannati a centinaia e a migliaia, usciti dal laghetto di sangue tutto buio, si arrampicavano freneticamente in fila indiana sul filo di ragno sottile e luccicante. Kandada con voce alta gridò: « Ehi, dannati, il filo di ragno è il mio. Chi vi ha dato il permesso? Scendete, scendete».
Proprio in quel momento il filo che aveva resistito fino allora al suo peso si spezzo d'un colpo net punto dove era attaccato Kandada. In un attimo egli precipitò nel fondo buio rotolando simile a una trottola.
Il filo sottile e luccicante del ragno del paradiso rimase solo in mezzo al cielo senza luna ne stelle, spezzato.
Budda sulla riva del laghetto dei loti guardava tutto quello che succedeva al di sotto del fondo, ma quando Kandada scomparve nel laghetto di sangue come una pietra, riprese il suo cammino con la faccia malinconica. Agli occhi di Budda sembro ignobile l'anima senza pietà di Kandada, che voleva uscire dall'inferno dasolo e per castigo dovette tornare all'inferno.
Ma i loti del laghetto del paradiso erano ignari di tutto questo. I bianchi fiori simili a perle ondulavano i loro calici ai piedi di Budda e i loro pistilli color oro spandevano in continuazione un profumo delizioso. Anche in paradiso si avvicinava il mezzogiorno.
(Akutagawa - maggio 1918)
Camminare sull’acqua I
Un brahmano aveva costruito il suo eremo vicino al grande fiume. Tutti i giorni arrivava una ragazza che attraversava il fiume con un traghetto e gli portava un po' di latte da parte del pastore che abitava sulla riva opposta. Talvolta era in ritardo e ciò irritava il brahmano. La ragazza si scusava: «Succede che devo aspettare il traghetto perché è ancora dall'altro lato o è appena partito». «Il traghetto? Stupidaggini!» esclamò il brahmano con disprezzo, e spazientito continuò: «Figliola, con il nome di Dio nel cuore e sulle labbra, un uomo che crede può camminare sulle onde del mare sconfinato e circolare delle morti e delle rinascite senza fine, per giungere alla lontana sponda della liberazione. E lo scorrere dell'acqua di un fiume è sufficiente a fermare il tuo piede?» La ragazza stava davanti al sant'uomo ammutolita e piena di vergogna. Si inchinò al suo cospetto, prese la polvere che stava ai suoi piedi e se la mise sulla fronte.
L'indomani la ragazza arrivò puntuale con il latte e così anche nei giorni successivi. Il brahmano fu soddisfatto dello zelo e dopo qualche tempo le chiese: «Come fai ad arrivare sempre così puntuale?» La ragazza rispose: «Signore, faccio come tu mi hai detto. Con il nome di Dio nel cuore e sulle labbra, cammino con fede sull'acqua, senza che il mio piede affondi. Non ho più bisogno del traghetto».
Il brahmano si meravigliò in silenzio per il potere prodigioso del nome di Dio in una creatura così semplice; non se ne fece accorgere e commentò: «Bene. Voglio venire con te per vederti camminare sull'acqua; voglio attraversare il fiume insieme a te». Era curioso: come faceva la ragazza a compiere il miracolo? Se davvero la giovane aveva successo, sicuramente anche lui ce l'avrebbe fatta.
Giunti alla sponda, le labbra della ragazza presero a muoversi silenziosamente; il suo sguardo era rivolto verso un punto lontano. La giovane mormorava continuamente il nome di Dio e, leggera come una piuma, cominciò a scivolare sull'acqua. La corrente fluiva veloce e gorgogliante sotto di lei senza spruzzarla; le piante dei piedi non sembravano toccarla.
Il brahmano stupefatto alzò un po' la veste, cominciò a sussurrare il nome di Dio e pose il piede sull'acqua. Ma non riuscì a restare accanto alla ragazza che, come una rondine, sembrava volare dolcemente. Stava per annegare. La giovane se ne accorse, scoppiò in una fragorosa risata e gridò, allontanandosi: «Non meravigliarti se stai affondando! Come può il nome di Dio farti camminare sull'acqua, se quando lo chiami ti sollevi la veste perché temi di bagnarne l'orlo?»
(Heinrich Zimmer - Racconti dall’India)
Il derviscio che camminava sull'acqua
Un giorno un derviscio dalla mentalità convenzionale, prodotto di un'austera scuola religiosa, stava passeggiando lungo un corso d'acqua, completamente assorto in problemi teologici e morali, perché quella era la forma che l'insegnamento sufi aveva assunto nella comunità cui apparteneva. Per lui la religione emotiva corrispondeva alla ricerca della Verità Suprema.
All'improvviso il filo dei suoi pensieri fu interrotto da un forte grido: qualcuno stava ripetendo l'invocazione derviscia. "Non serve a niente", si disse, “perché quell'uomo pronuncia male le sillabe”.
Il derviscio ritenne allora che fosse suo dovere - lui che aveva studiato con tanto zelo - correggere quel poveretto che sicuramente non aveva avuto l'opportunità di essere guidato nel modo giusto, e che probabilmente faceva solo del suo meglio per entrare in armonia con l'idea sottesa nei suoni.
Noleggiata una barca, remò in direzione dell'isola donde sembrava provenire la voce.
In una capanna di canne scorse, seduto per terra, un uomo vestito da derviscio che si dondolava al ritmo della ripetizione della formula iniziatica. "Amico mio", gli disse, "la tua pronuncia è sbagliata. Mi incombe dirtelo perché è meritevole dare consigli e altrettanto meritevole accettarli. Ecco come devi pronunciare". E glielo spiegò.
"Grazie", disse l'altro con umiltà.
Il primo derviscio risalì in barca, molto soddisfatto di aver compiuto una buona azione. Dopo tutto, non è detto che colui che riesce a ripetere correttamente la formula sacra possiede anche il potere di camminare sulle acque? Il derviscio non aveva mai visto nessuno compiere un simile prodigio, ma aveva sempre sperato, per qualche ragione, di riuscirci prima o poi.
Dalla capanna non arrivava più alcun suono; tuttavia, era convinto che la lezione aveva dato i suoi frutti.
Fu allora che udì nuovamente dei suoni sgradevoli: l’uomo dell'isola si era messo nuovamente a pronunciare la formula a modo suo ...
Il primo derviscio continuò a remare, meditando sulla perversità degli uomini e sulla loro cocciutaggine nel perseverare nell'errore.
Quando i suoi occhi scorsero uno strano spettacolo: il derviscio della capanna aveva lasciato la sua isola e stava venendo verso di lui camminando sull'acqua ...
Stupefatto, smise di remare. L'altro lo raggiunse e gli disse: "Fratello, perdonami se ti importuno, ma sono venuto a pregarti di insegnarmi ancora una volta il modo corretto di ripetere l'invocazione. Non riesco a ricordarlo..."
HAKAWATI
C'era una volta e ora non c'è più, un uomo devoto, timorato di Dio che aveva vissuto tutta la vita secondo principi stoici. Morì il giorno del suo quarantesimo compleanno e quando riaprì gli occhi fluttuava nel nulla. Bene, sia chiaro, fluttuare nel nulla era piacevole, mancavano luce e aria, come nel ventre materno. L'uomo fu grato di trovarsi lì.
In seguito, decise che gli sarebbe piaciuto avvertire il terreno compatto sotto i piedi in modo da sentirsi anch'egli più solido. E, d'un tratto, si ritrovò sulla terra. Sapeva che era terra, perché ne conosceva la sensazione.
E tuttavia voleva vedere. Vorrei la luce, pensò, e luce fu. Voglio la luce del sole, non una luce qualsiasi, e di sera voglio che sia la luna a illuminarmi. I suoi desideri furono esauditi.
Fa' che ci sia erba. Amo la sensazione dell’erba sotto i piedi. E così fu. Non voglio più essere nudo. Voglio solo vesti di seta purissima a contatto con la pelle. E un rifugio sicuro, ho bisogno di un palazzo sfarzoso, un ingresso con una doppia scalinata, pavimenti di marmo e tappeti persiani. E cibo, il cibo migliore. Ebbe prima colazione all’inglese e seconda colazione alla francese. Pranzo cinese. II tè del pomeriggio indiano. La cena italiana e lo spuntino di tarda sera libanese. Libagioni? Ebbe i migliori vini, naturalmente, e champagne. E compagnia, la migliore compagnia. Pretese poeti e scrittori, pensatori e filosofi, hakawati e musicisti, buffoni e clown.
E poi gli venne voglia di sesso.
Chiese donne di carnagione chiara e scura, bionde e brune, cinesi, asiatiche del sud, africane, scandinave. Le chiese singolarmente e due alla volta, e la sera faceva delle orge. Chiese fanciulle più giovani e donne più mature, solo per provare. Poi provò gli uomini, uomini muscolosi e uomini esili. Poi i ragazzi. Poi ragazzi e ragazze insieme.
Poi si annoiò. Provò a unire cibo e sesso. I ragazzi con il cibo cinese, le ragazze con il cibo indiano. Capelli rossi e gelato. Poi passò al sesso con i suoi compagni. Con il poeta. Con i suoi compagni e il poeta.
Ma continuava ad annoiarsi. Le giornate non finivano mai. Farsi venire nuove idee diventò fastidioso e spossante. Qualsiasi desiderio gli venisse in mente era soddisfatto.
Aveva sopportato abbastanza. Un giorno uscì di casa, sollevò lo sguardo al cielo, e disse: "Buon Dio. Ti ringrazio per la Tua prodigalità, ma qui non resisto. Vorrei essere ovunque, ma non qui. Piuttosto vorrei essere all’inferno".
E una voce dall'alto gli rispose: "E dove credi di essere?"
Rabih Alameddine
Hakawati. Il cantore di storie
La carovana
A________
C’era una volta nella città del Cairo un povero ciabattino afflitto da una moglie insopportabile quanto l’aceto negli occhi. Si chiamava Maruf. Viveva senza piacere, con le spalle curve, sotto il fardello di canzonature meschine e di insulti chiassosi, che la sua rozza metà accumulava tutti i giorni su di lui. Se voleva abbracciarla, lei digrignava i denti. Se le tendeva la mano, lei metteva fuori le unghie. Se le parlava d’amore, lei lo mandava a farsi benedire. Una sera, lo schiaffeggiò con il discutibile pretesto di uccidere una pulce invisibile sulla sua guancia. Fu la goccia che fece traboccare la sua scodella quotidiana di zuppa con le smorfie. Il ciabattino decise dunque di andarsene e cercare la pace altrove.
Se ne andò per i vicoli, singhiozzando. Vagò senza meta e giunse a un vecchio convento in rovina. E si mise a pregare.
B________
- Signore onnipotente e misericordioso, disse, portami via da qui, conducimi in un luogo al riparo dai dispiaceri! Pregò tutta la notte. Mentre la luna stava per scomparire, un uomo alto sbucò all'improvviso dalle rovine. Il suo corpo era circonfuso di luce.
- Sono l’Abdel Makan, il servitore del luogo, disse. Che cosa vuoi da me?
Maruf gli confidò le sue pene e la sua speranza. L’Abdel Makan allora lo prese per il colletto ed entrambi spiccarono il volo nel giorno nascente. Viaggiarono a lungo tra gli uccelli stupiti. Sotto di loro passarono fiumi, battelli, deserti, villaggi. Eppure quando Maruf si posò in mezzo a un vicolo, fra carrettate di arance e di spezie, il sole usciva appena dalle brume.
A________
-Dove sono? chiese.
-Nella città di Ikhtiar.
- Ikhtiar?
La sua espressione sbalordita divertì la gente che lo circondava. Gli diedero delle gomitate. Gli chiesero:
- Da dove vieni?
Maruf indicò il cielo. Scoppiarono tutti a ridere.
- Ma... non mi credete...
Lo presero in giro. Poi cominciarono a strattonarlo, Maruf voleva andarsene, lo spinsero con violenza.
B________
Allora un uomo ben vestito si fece largo fra la folla gridando:
- Vergognatevi, abitanti di Ikhtiar! Siete dei cani per maltrattare così un viaggiatore sperduto? L’uomo trascinò Maruf lontano dalla folla, lo fece entrare in casa sua e gli offrì del tè. Poi gli disse:
- Quando sono arrivato in questa città, ero povero come te. Sai che cosa ho fatto? Ho detto ovunque in città che ero ricco e che stavo aspettando una carovana carica di legni preziosi e di tessuti cinesi. Così mi hanno prestato dell’oro, che ho naturalmente promesso di restituire non appena mi fossero giunti quei tesori inventati. Con quell’oro ho fatto alcuni buoni affari, ho restituito i prestiti, ho fatto fruttare gli utili e in un anno di attività sono diventato un commerciante agiato. Prendi nel mio guardaroba un bell’abito ricamato e fa come ho fatto io.
A________
Maruf ringraziò quel compagno insperato e si travestì da mercante rispettabile. Era un sognatore di alto bordo.
Sostenne di essere in attesa di meraviglie così rare che gli vennero aperte le porte di alcuni palazzi. Ma non per questo si arricchì...
Il fatto è che era generoso, grave difetto per un uomo d’affari. Non sopportava la miseria nello sguardo dei mendicanti, e distribuì dunque tutto l’oro preso in prestito.
E i ricchi si disputarono l’onore di essere suoi amici intimi. La sua carovana aveva qualche ritardo? - « Che importa, dicevano, un uomo abbastanza sicuro della sua ricchezza da sperperarla in opere di carità è degno certamente di infinita fiducia. »
Chiese ancora dei prestiti. Ancora diede tutto ai poveri. Ancora pazientarono.
B________
Ma la sua carovana continuava a non arrivare. Alla fine cominciarono a dubitare. I suoi creditori si dissero: « Non è il suo oro che dona ai miseri, Dio santo, è il nostro! E se il buon Maruf fosse un impostore? » Andarono a lamentarsi dal re della città.
« Un vero mercante, pensò il re, sa valutare il prezzo di una pietra preziosa. Mostrerò dunque a quell’uomo la mia perla più rara. Se ne conosce il valore significa che ne ha viste altre. E quindi non può essere il truffatore che dicono.»
Convocò Maruf.
- Amico, gli disse, guarda questo gioiello. Secondo te, quanto vale?
Maruf pensò « Come faccio a saperlo? Vendo aria e non sassolini luccicanti come questo. Ma, se confesso la mia ignoranza, sono perduto!»
- Sire, rispose con il batticuore, la vostra perla è bella assai. Però, a paragone di quelle che trasporta la carovana che attendo, sia detto senza offendere la vostra gloria, non vale più di un ciottolo di fiume.
A________
- Oh, davvero disse il re.
« Quest’uomo, pensò il sovrano, è mille volte più ricco di quanto immaginassi. Devo averlo come genero ».
- E’ un bugiardo, gli sussurrò il suo visir.
-Oh, sei geloso, ribatté il re.
B________
-« I sogni finiscono, pensò Maruf. Accumulo i debiti e non guadagno nulla. Un giorno, finirò di certo in prigione. Sposare la principessa, per il pietoso imbroglione che sono, non sarebbe corretto. Che fare, Dio del Cielo? Guadagnare tempo, ancora». Disse al re:
- Signore, finché la carovana, il cui arrivo è imminente, non sarà nella mia casa, non potrò provvedere ai bisogni di una sposa principesca. Rimandiamo la data del matrimonio.
« E’ davvero l’uomo più onesto che abbia mai conosciuto », pensò il re.
- Sposa mia figlia, gli disse. E’ un ordine. Abbracciami, figliolo.
Il sovrano invitò Maruf ad attingere a piene mani dal tesoro reale, in attesa della sua carovana. E Maruf attinse. Le sue nozze furono indimenticabili. Una pioggia d’oro discese sui diecimila mendicanti della città. I festeggiamenti durarono ovunque trenta giorni e trenta notti.
A________
Quando gli sposi novelli si ritirarono nei loro appartamenti, Maruf si tolse le scarpe, si massaggiò a lungo le dita dei piedi e disse alla sposa:
- Moglie, sono preoccupato. Abbiamo speso tante monete d’oro quante sono le stelle in cielo.
- Perché preoccupartene, gli disse la principessa, dato che la tua carovana arriverà presto?
Maruf la guardò. Lei gli sorrise, felice e fiduciosa. Allora il ciabattino decise di non mentirle.
B_________
-Moglie, le disse, la mia carovana è un sogno. Non esiste, non è mai esistita, non esisterà mai. Sono un impostore. Il visir ha ragione, benché mi abbia accusato per gelosia. Ma che importa! Adesso che sai la verità, che cosa farai?
A________
- La sposa non può disonorare lo sposo senza cadere anche lei nel disonore, rispose la principessa. Maruf, fidati di me. Prendi l’oro che ci resta e lascia il paese. Non appena potrò, ti raggiungerò.
Maruf le baciò le mani. Travestito da schiavo, uscì dalla città e imboccò un sentiero deserto.
B________
L’indomani mattina, la principessa si recò nella sala del trono dove sedeva il re.
-Dov’è il tuo sposo?
-Sire, è dovuto partire - rispose la principessa. Dei briganti del deserto hanno attaccato la sua carovana. Hanno ucciso cinquanta delle sue guardie e preso cento carichi dei cammelli.
Il che non rappresenta niente per lui, la sua ricchezza e così grande! Ma ha deciso di andare incontro a quei tesori per rassicurare i suoi e marciare alla loro testa.
- Che uomo! esclamò il re.
- Maestà, io sostengo che si tratta di un impostore, mormorò il visir.
A________
Maruf, intanto, percorrendo veloce il suo sentiero, giunse all’alba sul ciglio di un campo che veniva arato da un uomo. Si sedette sull’erba, sotto un albero. L’uomo gli si accostò e gli chiese:
- Hai fame? Mi sembri stanco. Aspettami un attimo, vado a prendere pane e formaggio, laggiù, nella mia capanna, e faremo colazione insieme. Si allontanò fischiettando una fresca melodia.
B________
Maruf pensò: «Questo compagno di miseria mi offre ciò che ha senza chiedermi nulla. Che cosa posso fare, io, per ricambiare? » Guardò il campo. « Arare un solco mentre è assente, pensò ancora, ecco il solo modo per ripagarlo della sua bontà. » Andò all’aratro, ne afferrò i manici e si mise a spingere. Aveva fatto appena tre passi che il vomere urtò una pietra. Si chinò, la sollevò e scoprì un buco. Una scala sprofondava sotto terra. Il ciabattino scese venti gradini e arrivò in una grotta alle cui pareti ardevano lampade eterne. Dovunque c’erano forzieri traboccanti d’oro, di diamanti, di gioielli. Maruf avanzò a braccia aperte fra quelle meraviglie. Il suo piede inciampò in una scatola. La raccolse, l’apri, vi trovò un anello. Lo prese e se lo strofinò contro la manica. Ne scaturì un fumo in cui prese forma un essere enorme.
A________
Non era un orco, aveva un’aria gentile.
- Padrone dell’anello, disse inchinandosi , sono il tuo servitore!
B________
- Chi sei? chiese Maruf. A chi appartengono questi tesori?
A________
- Il Padre della Felicita, è così che mi chiamano, gli rispose il jinn. Questi beni appartennero a Shaddad, figlio di Aad, vecchio re di questo paese.
B________
Maruf gli ordinò di vuotare la caverna e di portare tutto nel campo, al sole del mattino. Fu fatto in un battibaleno.
Grazie alla magia del jinn, apparvero subito innumerevoli cammelli, asini, muli, cavalli, che vennero caricati da mille mamelucchi nati da una strizzatina d’occhio del Padre della Felicità.
Il contadino, tornato con la colazione, si prese la testa fra le mani credendo di perdere il senno.
- Mangiamo, gli disse Maruf.
Fecero colazione insieme con pane, formaggio e cipolle crude.
- Voglio farti un dono. Cosa vuoi? gli chiese Maruf. Un castello? Delle serve?
- Una casa di pietra e quattro sacchi di grano da seminare nel mio campo, rispose l’uomo. Aravo per niente. Non avevo semente.
Il Padre della felicità si incaricò del lavoro.
A________
Quella sera, Maruf entrò in città alla testa di una carovana straordinaria. La sua sposa alla finestra era sconvolta: credette che il marito le avesse mentito per mettere alla prova la sua lealtà. Il re e i mercanti rimasero tutti notevolmente impressionati, ma poco stupiti; i tesori tanto attesi finalmente arrivavano. Solo il visir mugugnò che doveva esserci sotto qualche inconfessabile magia. Era invidioso. Lo presero in giro.
B________
Così finisce la storia di Maruf e della sua carovana di sogni.
Amici, che la vostra arrivi un giorno in porto.
Come la sua.