Serata di racconti - Gennaio 2011




Cari amici, ecco il blog di nuovo in funzione.

Vi metto qui di seguito una prima traccia della serata, con i materiali che per ora mi pare si possano utilizzare. Le parti che non sono di Baliani le ho scritte io e possono essere una traccia per chi porterà quella parte.

Penso che la cosa migliore sarà dividersi le parti, siano esse testo, poesia o racconti, portando coralmente tutto il percorso.

Magari la poesia della pietra si può fare a due voci.

Quando avremo messo tutti i materiali valuteremo la durata. Ovviamente le cose che avevate proposto e che io non ho inserito non sono escluse: il percorso è ancora un work in progress in cui possiamo andare ancora un po' a ruota libera.

domenica 8 maggio 2011

FESTA D'ESTATE

Introduzione sul tempo dell’estate, come tempo più calmo in cui possiamo soffermarci a pensare, guardare, scoprire. Tempo di ozio nel proprio giardino o tempo di viaggi in luoghi lontani. Ma perché sia davvero una rigenerazione occorre creare delle condizioni. Quali? Siamo capaci, ad esempio, dopo un anno speso a correre, a rincorrere cose da fare, lavoro, problemi, siamo capaci di “cambiare gli occhiali con cui guardiamo il mondo”, fermarci e provare stupore?
Non essendo che uomini, camminavano tra gli alberi
Spauriti, pronunciando sillabe sommesse
Per timore di svegliare le cornacchie,
Per timore di entrare
Senza rumore in un mondo di ali e di stridi.
Se fossimo bambini potremmo arrampicarci,
Sorprendere nel sonno le cornacchie, senza spezzare un rametto,
E, dopo l'agile ascesa, Cacciare la testa al di sopra dei rami
Per ammirare stupiti le immancabili stelle.
Dalla confusione, come al solito,
E dallo stupore che l'uomo conosce,
dal caos verrebbe la beatitudine.
Questa, dunque, è leggiadria, dicevamo,
Bambini che guardano con stupore le stelle,
È lo scopo e la conclusione.
Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi.
Dylan Thomas
Marco Baliani, attore, regista e scrittore ci aiuta ad entrare nella poesia di Thomas. Si chiede:
Cos'e lo stupore? Quando accade? Come ci raggiunge?
È qualcosa che viene dal di fuori o siamo noi a farlo nascere in noi stessi? Le stelle sono lì da sempre e sempre saranno, sono "immancabili". Cosa le rende capaci in certi momenti di generare in noi lo stupore?
Nella poesia di Dylan Thomas  - dice Baliani - sembra che occorra un'avventura per scoprire lo stupore. Forse occorre arrampicarsi su un albero di notte, far silenzio nel mondo degli uccelli, e solo dopo che la testa spunta tra i rami ecco lo stupore che le stelle sono ancora lì ad aspettarmi. Eppure tutte le cose del mondo ritornano in un grande ciclo che non ha mai termine, tornano le stelle, il sole nasce e scompare, la luna si gonfia e si svuota, il mare torna alla riva, ma nulla torna mai proprio uguale. Mille sfumature fanno tornare le cose mai identiche alla volta precedente; cambiano le atmosfere, i paesaggi, il tempo, cambiamo soprattutto noi che percepiamo le cose del mondo.
I bambini riescono ancora a stupirsi di questi cambiamenti minimi nel ritorno delle cose, riescono a stupirsi perfino che le cose ritornino come le "immancabili stelle". Gli adulti invece non fanno che continuare a camminare sotto gli alberi. Gli adulti han perso il gusto di arrampicarsi. I loro corpi sono troppo pesanti. Forse son pieni di altri pensieri che credono più importanti, e danno per scontato che le stelle comunque riappaiano, e così evitano di vederle e sentirle e lo stupore si perde, non lo si coltiva più. 
Provate a narrare a un bambino una fiaba una sera. Se il vostro racconto è stato efficace, il giorno dopo  il bambino vi chiederà di raccontargliela ancora. Ma guai se la cambiate, dovete ripercorrere le stesse tappe, le stesse sospensioni, rifare le stesse voci, perfino le stesse parole, e più la racconterete, più vorrà riascoltarla identica.
Noi adulti invece crediamo che l'originalità sia una dote e che sia il cambiamento continuo a generare piacere. E non ci ricordiamo di quel tempo in cui era la ripetizione a generare stupore e piacere. Nel bambino, lo stupore non sta nello scoprire cose ma nel ri-conoscerle.
Tempo fa  - racconta Baliani - ero a Palermo per partecipare ad un meeting sulla narrazione orale e sull'incontro tra culture diverse. Ogni pomeriggio c'era un gruppo di narratori che portavano un racconto-esperienza e lo scambiavano con l'assemblea. Ricordo un'india peruviana di nome Maria, piccola di statura, immigrata da anni in Sicilia e ora pronta a tornare nelle proprie terre: toccava a lei narrare, era visibilmente sopraffatta dall'emozione.
Cercò di cominciare ma le labbra le tremavano. Allora si fermò, disse “scusatemi” e in totale concentrazione comincio a cantare rivolgendosi ai quattro punti cardinali. Il convegno si svolgeva ai cantieri della ZITA, ex-capannone industriale, travi enormi al soffitto, spazio non definito, vetrate, piccioni che volavano fra i travi. Quel canto, per il breve tempo della sua emissione, era come se aprisse lo spazio, come se tutti quello spazio lo vedessero davvero per la prima volta. Ci fu, per quasi ognuno di noi, qualcosa che era vicino allo stupore più puro.
Poi cominciò a raccontare. Non ricordo tutta la storia, ma mi colpì ad un certo punto l'immagine della nonna india che raccomandava a lei bambina di chiedere il permesso agli alberi prima di coricarsi a dormire nella foresta: era la storia di un suo viaggio da bambina, col padre, fino alle montagne dove per la prima volta aveva visto la neve. Chieder permesso alle cose del mondo. Presso molti popoli e culture le cose sono dotate di anima: prima di spostare un sasso occorre chiedere permesso al sasso e ascoltare la sua risposta. Così prima di abbattere un albero, di uccidere un animale. 
STORIE DEI BOSCIMANI che quando andavano a caccia chiedevano il permesso al Grande spirito per uccidere un animale. E quando lo avevano ucciso aiutavano il suo spirito a tornare in cielo: andavano in una grotta segreta dalle pareti azzurre, e compivano un rito disegnando sulla parete l'animale ucciso che avrebbe consentito alla loro tribù di trovare il nutrimento.
Sono culture che noi chiamiamo primitive, infantili; credono che il mondo stia lì da molto tempo prima di noi e che resterà così anche dopo di noi; che noi siamo solo di passaggio e che cambiare 1'ordine del mondo, anche una cosa così piccola come una pietra, richieda una preghiera, comunque un permesso.
Sono culture che hanno dedicato tutta la loro energia a conservare il mondo com’è; mentre per noi il senso della nostra esistenza si mette alla prova solo quando lo trasformiamo questo mondo. Siamo sempre lì a cambiare, spostare. Siamo una cultura trasformativa, l'idea stessa di arte, di progresso, di evoluzione si fondano sul presupposto che si debba sempre cercare un cambiamento.
Dice Baliani: “Mi domando a volte:
ma quando la nostra cultura ha imboccato questa strada? cosa è accaduto nei tempi antichi?
Quando e perché abbiamo coltivato uno stupore non legato al riconoscimento del mondo, ma ad una continua scoperta trasformazione del mondo?
O è sempre stato così?
"Conservare" è una parola che non ci piace. Conservatore è colui che, in politica, è reazionario, ama lo status quo, ha sempre nostalgia del passato ed è spaventato dal futuro...
però... però le conserve quelle sì che ci piacciono.
Marmellate, ortaggi messi sott'olio, composte; l'arte del conservare il cibo è assai più femminile che maschile. I pomodori secchi messi sott'olio con spezie varie vengono aperti l'inverno successivo, magari in una cena con amici. 
Ormai le conserve si possono acquistare nei supermercati, e forse costano meno dei nostri barattoli; ma quando li assaggiamo i nostri ci sembrano squisiti e unici: è il tempo che abbiamo dedicato alla loro preparazione che li rende preziosi. Guardate cosa succede quando si apre un barattolo di conserva in una cena. Partono storie, nascono racconti, sempre. Sempre! Gli amici vogliono sapere il percorso di quegli ingredienti, da dove vengono, come si preparano. Ma tu come le hai fatte? Mia zia ci metteva il coriandolo... no, io con la cipolla... se non tagliuzzi l’aglio... 
Ogni cosa conservata conserva anche una o più storie nascoste dentro l'esperienza della sua elaborazione.
Quando incontriamo una cosa preziosa sentiamo come un'aura intorno ad essa, una speciale presenza. Provate a scegliere una pietra in un bosco o su una spiaggia; la portiamo a casa, le diamo un posto sullo scaffale e già questo atto, questa piccola fatica, ha reso quella pietra diversa da tutte le altre. se poi accumuliamo diversi ciottoli, quella piccola collina è un segnale potente, e chi passa sentirà l'energia accumulata da ogni pietra. Compiere un atto simile, creare un mucchio di pietre non dovrebbe essere fatto alla leggera: e un segno di trasformazione enorme nell'ordine del mondo. Ma noi non sappiamo più come chiedere permesso alle pietre e la sola idea ci fa sorridere di superiorità come si sorride delle credenze animistiche di un bambino.
CONVERSAZIONE CON UNA PIETRA Wislawa Szymborska (da “Sale” 1962)
Busso alla porta della pietra
- Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un'occhiata,
respirarti come l'aria.
- Vattene - dice la pietra.
- Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.
Busso alla porta della pietra.
- Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d'acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
- Sono di pietra - dice la pietra
- E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.
Busso alla porta della pietra.
- Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l'eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.
- Sale grandi e vuote - dice la pietra
- Ma in esse non c'è spazio.
Belle, può darsi, ma al di là del gusto
dei tuoi poveri sensi.
Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.
Con tutta la superficie mi rivolgo a te,
ma tutto il mio interno è girato altrove.
Busso alla porta della pietra
- Sono io, fammi entrare.
Non cerco in te un rifugio per l'eternità.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.
Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò e uscirò a mani vuote.
E come prova d'esserci davvero stata
porterò solo parole,
a cui nessuno presterà fede.
- Non entrerai - dice la pietra.-
Ti manca il senso del partecipare.
Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare.
Anche una vista affilata fino all'onniveggenza
a nulla ti servirà senza il senso del partecipare.
Non entrerai, non hai che un senso di quel senso,
appena un germe, solo una parvenza.
Busso alla porta della pietra.
- Sono io, fammi entrare.
Non posso attendere duemila secoli
per entrare sotto il tuo tetto.
- Se non mi credi - dice la pietra-
rivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa.
Chiedi a una goccia d'acqua, dirà come la foglia.
Chiedi infine a un capello della tua testa.
Scoppio dal ridere, d'una immensa risata
che non so far scoppiare.
Busso alla porta della pietra.
- Sono io, fammi entrare.
  • Non ho porta - dice la pietra.
E’ come se avessimo smarrito la capacità di entrare in mondi che crediamo di conoscere, perché li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. La nostra cultura scientifica ha analizzato, catalogato e studiato tutto il mondo visibile. E’ che abbiamo smarrito la capacità di vedere oltre il visibile, e quindi tutto il mondo ci sembra opaco. Allora stanchi di vedere le solite cose facciamo dei viaggi in paesi lontani, che vediamo  distrattamente, condotti da una guida che ci riempie la testa di date, di dati informazioni, e non ci lascia neppure il tempo di fermarci un momento a guardare a chiederci “quale intuizione divina ha guidato un uomo a immaginare la Sainte Chapelle?”
(una guida turistica con l’ombrellino alzato parla ai turisti)
(Chi può tradurlo per favore?)
GUIDA: Sainte-Chapelle was founded by the ultra-devout King Louis IX of France, who constructed it as a chapel for the royal palace and to house precious relics. The palace itself has otherwise utterly disappeared, leaving the Sainte-Chapelle all but surrounded by the Palais de Justice.
Unlike many devout aristocrats, who regularly swiped sacred relics, the saintly Louis bought his for a hefty sum. In 1239, he purchased the crown of thorns from the impoverished Latin emperor at Constantinople, Baldwin II, for 135,000 livres (the entire chapel, by contrast, cost 40,000 livres to build). A piece of the True Cross was added, along with other relics, making Sainte-Chapelle a valuable reliquary.
In addition to properly sheltering his holy relics, Sainte-Chapelle was a result of Louis' political ambition to be the central monarch of western Christendom.
At the time Louis' royal chapel was constructed, the imperial throne at Constantinople was occupied by a mere Count of Flanders and the Holy Roman Empire was in uneasy disarray.
Sainte-Chapelle was planned in 1241, started in 1246 and quickly completed: it was consecrated on April 26, 1248.
Just as the Emperor could pass privately from his palace into Hagia Sophia in Constantinople, so now King Louis could walk directly from his palace into the Sainte-Chapelle. The king died of the plague on a crusade, was later canonized by the Pope, and is now known as Saint Louis.
During the French Revolution, the chapel was converted to an administrative office, and the windows were obscured by enormous filing cabinets. Their all-but-forgotten beauty was thereby inadvertently protected from the vandalism in which the choir stalls and the rood screen were destroyed, the spire pulled down and the relics dispersed.
Most of Louis' precious relics were lost or destroyed in the French Revolution; the few that remain are in the treasury of Notre-Dame Cathedral.
In the 19th century, Viollet-le-Duc restored the chapel. The current spire is his design. Sainte-Chapelle has been a national historic monument since 1862.
La Sainte Chapelle, quella che sta nel Palais de Justice di Parigi, con le sue pareti di luce. 
 Vetrate dai mille colori che raccontano le storie dell’antico e del nuovo testamento: una cattedrale imponente fatta di aria, di pura vibrazione di colore. Che quando entri ti toglie il fiato. Ti lascia lì, piccolo uomo avvolto da questo grande palpito. Ma non c’è tempo di farsi domande. Torniamo con souvenir e centinaia di foto con le quali cerchiamo di portarci via qualcosa di quei mondi che per noi continuano a restare estranei e incomprensibili. Poi organizziamo una serata in cui mostriamo le nostre cinquecento diapositive agli amici - a chi non è capitato (di far parte degli amici, intendo dire). E le foto mostrano ma non parlano. E i nostri amici sopraffatti, affondano nel divano, muti, o con qualche parola di circostanza, aiutati solo dalla penombra a dissimulare la loro inutile resistenza all’assopimento. E il mondo che ci circonda diventa sempre più opaco. Ci sembrava, andando lontano, che le meraviglie del mondo ci sarebbero venute incontro, ma se non ci alleniamo a provare stupore, anche delle cose vicine e conosciute, il mondo resterà muto.
I due sognatori
Nella città persiana di Isfahan, viveva un tempo un contadino poverissimo. Come unico bene possedeva un’umile casetta bassa del colore della terra riarsa dal sole, davanti alla quale si stendeva un campo sassoso, alla cui estremità c’erano una fonte e un fico che costituivano tutta la sua ricchezza.
Quest’uomo, che lavorava molto per raccogliere poco, quando la meridiana stinta sulla facciata della sua casupola indicava il mezzogiorno, soleva fare la siesta all’ombra del suo fico. Un giorno, addormentatosi con la nuca contro il tronco del suo albero, fece un bel sogno. Gli pareva di camminare in una città popolosa, vasta, magnifica. Lungo il vicolo che percorreva indolentemente c’erano botteghe traboccanti di frutta e di spezie, di rami e di tessuti variopinti. In lontananza, contro il cielo azzurro, si innalzavano minareti, cupole, palazzi dorati. Il nostro uomo, contemplando in estasi quelle ricchezze, quelle bellezze e i volti affabili della folla circostante, giunse presto, nella luce e nella facilità di quel sogno benedetto, in riva a un fiume attraversato da un ponte di pietra. Avvicinatosi al ponte, si fermò di colpo, incantato: ai piedi del primo paracarro si trovava uno straordinario tesoro di monete d’oro e di pietre preziose in un grande forziere aperto. Udì allora una voce che gli disse:
- Ti trovi nella grande città egiziana del Cairo. Questi beni, amico, sono destinati a te.
Si erano appena accese tali parole nella sua mente che si svegliò sotto il suo fico, a Isfahan. Il contadino pensò subito che Allah lo amasse e desiderasse arricchirlo.
« In verità, penso, questo sogno non può essere che il frutto della sua indulgente bontà. » Racchiuse in un fagotto le sue poche cose, nascose la chiave della sua casupola fra due pietre del muro e partì subito alla volta della terra d’Egitto per cercare il tesoro promesso.
Il viaggio fu lungo e rischioso, ma per grazia naturale il contadino aveva il piede saldo e una salute di ferro. Incontrò briganti, animali selvaggi, trappole lungo strada, e dopo tre settimane giunse finalmente alla grande città del Cairo, che era esattamente come l’aveva veduta in sogno.
Camminò negli stessi vicoli fra la stessa folla indolente, passando accanto alle stesse botteghe traboccanti di tutti i beni del mondo. Si lasciò guidare dagli stessi minareti, che si stagliavano in lontananza contro il cielo limpido. Arrivò così in riva allo stesso fiume attraversato dallo stesso ponte di pietra. All’entrata del ponte si trovava lo stesso paracarro. Lo raggiunse di corsa con le mani già protese alla ricchezza... ma lì non c’era che un mendicante, che gli tese la mano per chiedere un tozzo di pane. Del tesoro non c’era la minima traccia.
Allora il nostro inseguitore di sogni, allo stremo delle forze e delle risorse, si disperò.
« A che serve vivere ormai, si disse. In questo mondo non può capitarmi più nulla di auspicabile. » Con il volto inondato di lacrime, scavalcò il parapetto, deciso a gettarsi nel fiume. Il mendicante lo trattenne per un piede, lo riportò sul selciato del ponte, lo prese per le spalle e gli disse:
– Perché vuoi morire, povero sciocco, con un tempo così bello?
L’altro, singhiozzando, gli raccontò tutto: il suo sogno, il suo lungo viaggio, la sua speranza di trovare un tesoro. Allora il
mendicante si mise a ridere fragorosamente, si picchiò la fronte con il palmo della mano e, indicandolo all’intorno come un gran buffone, disse:
– Ecco il più grande idiota della terra. Che follia avere intrapreso un viaggio così pericoloso prestando fede a un sogno!
Mi credevo povero di spirito, ma, in confronto a te, mi sento saggio come un santo derviscio. Io che ti parlo, tutte le notti, da anni, sogno di trovarmi in una città sconosciuta. Il suo nome è, credo, Isfahan. In quella città. c’e una casupola colore della terra riarsa dal sole, dalla facciata modestamente ornata da una meridiana stinta. Davanti a tale abitazione si stende un campo sassoso, in fondo al quale si trovano una fonte e un fico.
Tutte le notti, nel mio sogno, scavo una buca profonda ai piedi di quel fico e scopro un forziere colmo fino all’orlo di monete d’oro e di pietre preziose. Mi sono mai sognato di rincorrere quel miraggio? No. Sono un uomo ragionevole, io. Sono rimasto a mendicare tranquillamente il mio pasto su questo ponte di grande passaggio.I sogni sono menzogneri, dice il proverbio. Saresti dovuto rimanere dove ti ha messo Dio. Va’, medita, e in futuro
sii meno ingenuo, vivrai meglio.
Il contadino, dalla descrizione fatta, riconobbe la sua casa e il suo fico. Con il volto a un tratto illuminato, abbracciò il mendicante sbalordito da quell’accesso improvviso di entusiasmo e ritornò a Isfahan di corsa, saltellando come un uomo pervaso da una gioia inesauribile.
Arrivato a casa, senza nemmeno aprire la porta, afferrò una zappa, scavò una grande buca ai piedi del fico e in fondo alla buca scoprì un immenso tesoro.
Allora, prosternandosi, disse:
– Dio è grande e io sono suo figlio.
Così finisce la storia.

Vedere oltre il visibile dicevamo... Come facciamo a lasciarci stupire da cose apparentemente insignificanti? A trovare le chiavi per “vedere”? E scoprire che il tesoro è nel nostro giardino?
Tonino Guerra, scrittore e uno dei più importanti sceneggiatori del cinema italiano racconta:
L' ultima lezione di sceneggiatura che ho tenuto a Mosca era sulla differenza tra guardare e vedere. Allora mi è venuto in mente un fatto che mi è successo. Faccio fermare la macchina su cui ero perché vedo una panchina, mi voglio avvicinare. Era una panchina di ferro diventata verde, piena di muschio. Ho cominciato a capire perché: la trattoria davanti era chiusa, nel giardinetto non andava più nessuno, la panchina soffriva di solitudine. E allora mi sono seduto e l' ho fatta lavorare. Ho voluto darle un po' di valore: solo allora stavo vedendo, prima guardavo.
Anche Kandinsky e Matisse parlavano di vedere oltre il visibile... (to be continued)


INSERIRE:
Esperienze (da bambini o da adulti) 
Kandinsky
Matisse
Viaggio Terzani

3 commenti:

  1. Cari tutti sono riuscita a ritrovare questa incredibile poesia boscimane(africa meridionale)sulla luna,anzi,in rapporto con la luna.
    CANTO ALLA FALCE DELLA LUNA NUOVA
    Kabbia lassù!Prendi il viso mio!
    Tu devi darmi il viso tuo!
    Tu devi prendere il viso mio!
    Quello che non si sente bene!

    Tu devi darmi il viso tuo_
    col quale,quando sei morta,
    ritorni nuovamente in vita,
    quando non ti vediamo;
    tu posi e poi ritorni_
    Affinchè io ti assomigli,
    Perchè tua è la gioia
    Di ritornare sempre in vita,
    Quando non ti scorgiamo

    Che ne dite se cercassimo qualche"balocco"della nostra infanzia per eventuale ambientazione della festa?
    Ora proverò a scrivere qualcosa dei miei ricordi estivi,da non leggere mai...ora o mai più...un abbraccio a tutti
    Marilena

    RispondiElimina
  2. PREGHIERA DEL CACCIATORE A NONNA CANOPO (stella)

    Dammi il tuo cuore che hai in abbondanza
    e tu prendi il mio che è terribilmente vuoto,
    che anch’io possa essere colmo come te. Perché ho fame, ma tu sembri essere pienamente soddisfatta,
    tu che sei tanto piccola.

    Perché ho fame, dammi il tuo stomaco che è sazio
    e prendi il mio, che possa anche tu
    provare la fame.

    Dammi il tuo braccio, che il mio sbaglia mira,
    e colpisci per me la preda.

    Anche questa è boscimane e muove la mia anima.
    Che ne dite? Vado a scavare nei miei ricordi.
    Un caro saluto
    Elena

    RispondiElimina
  3. Carissimi, mi è venuta in mente questa poesia di Montale,
    non so quanto c'entri con i discorsi che avete fatto la volta scorsa..
    forse non abbastanza primitiva?...
    Francesca

    Eugenio Montale: I Limoni

    Ascoltami, i poeti laureati
    si muovono soltanto fra le piante
    dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
    lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
    fossi dove in pozzanghere
    mezzo seccate agguantano i ragazzi
    qualche sparuta anguilla:
    le viuzze che seguono i ciglioni,
    discendono tra i ciuffi delle canne
    e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

    Meglio se le gazzarre degli uccelli
    si spengono inghiottite dall'azzurro:
    più chiaro si ascolta il susurro
    dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
    e i sensi di quest'odore
    che non sa staccarsi da terra
    e piove in petto una dolcezza inquieta.
    Qui delle divertite passioni
    per miracolo tace la guerra,
    qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
    ed è l'odore dei limoni.

    Vedi, in questi silenzi in cui le cose
    s'abbandonano e sembrano vicine
    a tradire il loro ultimo segreto,
    talora ci si aspetta
    di scoprire uno sbaglio di Natura,
    il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
    il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
    nel mezzo di una verità.
    Lo sguardo fruga d'intorno,
    la mente indaga accorda disunisce
    nel profumo che dilaga
    quando il giorno piú languisce.
    Sono i silenzi in cui si vede
    in ogni ombra umana che si allontana
    qualche disturbata Divinità.

    Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
    nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
    soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
    La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
    il tedio dell'inverno sulle case,
    la luce si fa avara - amara l'anima.
    Quando un giorno da un malchiuso portone
    tra gli alberi di una corte
    ci si mostrano i gialli dei limoni;
    e il gelo dei cuore si sfa,
    e in petto ci scrosciano
    le loro canzoni
    le trombe d'oro della solarità.

    RispondiElimina